NODO IN GOLA
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RENZO FRANCABANDERA | Per la seconda stagione consecutiva Drama Teatro, sodalizio creativo tenacemente portato avanti dal duo Siti/Vercelli e che gestisce uno spazio a Modena, entro una zona oggetto di riqualificazione urbana che comprende anche vecchi capannoni e siti artigianali, ospita e coproduce, con Sense Specific Theatre,Un nodo in gola,performance ambientale realizzata da Gabriella Salvaterra.
L’artista, che ormai opera a livello internazionale e vive fuori dall’Italia, si è formata alla scuola di Vargas e del teatro sensoriale, da cui negli anni si è poi distaccata per un affermare progressivamente un proprio specifico segno artistico che, pur mutuando alcune forme costituenti di quella matrice esperienziale, sta via via distillando tematiche e modalità originali.
La creazione Succede, presentata sempre in questi spazi l’anno scorso, metteva a fuoco con delicatezza e finanche visionarietà il tema della violenza sulle donne attraverso un percorso sensibile che voleva proprio, come suggerisce il titolo, evidenziare la drammatica naturalezza con cui, in alcuni rapporti umani, si arriva al condensato violento.
L’esperimento di quest’anno, che ha fatto il suo debutto nazionale nello spazio modenese, è invece dedicato a quel sentimento dai confini indicibili e sfumati, che solo in modo approssimativo potrebbe essere definito paura, ma che ha più a che fare con l’angoscia esistenziale, il nodo alla gola come appunto il titolo evoca, che lascia a volte senza respiro, e che comprende ovviamente anche la consapevolezza e coscienza della finitezza della vita umana.
ph Alex Spattini
Gli spettatori, in un numero massimo di diciotto persone, vengono accolti in un primo ambiente, in cui l’archetipo, potremmo dire l’ossessione dell’artista per la fotografia come oggetto depositario della memoria, è protagonista: una donna è in ginocchio per terra e ha davanti alcune centinaia di fotografie venute fuori dagli album in cui probabilmente erano ordinatamente contenute. Un ventilatore le muove, una sorta di agente esterno disordinante, capace di scompigliare le cose, di creare uno caos emotivo, di determinare un altro ordine, la cui leggibilità ci sfugge.
A quel punto il gruppo degli spettatori viene diviso per iniziare un avvicinamento alla tematica oggetto del lavoro, individuando all’interno di un gruppo di fotografie mostrate loro anche dalle altre due performer Arianna Bartolucci, Arianna Marano presenti attivamente nell’azione scenica oltre alla Salvaterra (ma non le uniche, perché nello spazio agiscono anche altre figure a supporto tecnico, seppur in modo non percepibile dagli spettatori), una immagine che si ricolleghi al proprio vissuto esperienziale e che rimandi al tema della piccola paura, del timore nell’esistere.
Da questo punto in poi la creazione si sposta dentro una dimensione più oscura e misteriosa, che ha a che fare proprio con i passaggi bui dell’esistenza e, portando gli spettatori dentro un secondo ambiente di luci fioche e ombre, che rimanda per certi versi all’esperienza del percorso al buio, si muove fra narrazione, performance partecipata e creazione installativa, con alcuni momenti e alcune visioni capaci di avere davvero la cifra del sorprendente, di creare sia stupore che emozione.
Su questi elementi in particolare non ci soffermiamo in dettaglio per evitare che chi dovesse leggere queste note in anticipo rispetto alla fruizione, venga privato del piacere di una relazione diretta con tutto questo.
Dal punto di vista del linguaggio e soprattutto dell’evoluzione del percorso dell’artista nelle sue creazioni più recenti, la realizzazione appare a nostro avviso significativa per la poetica della Salvaterra, perché per alcuni versi inizia una certa emancipazione dall’idea del percorso e dell’itinerario in puro stile “Sentidos”, con la regista che in questo spettacolo in particolare si dona in maniera faticosa e generosa, coinvolgendosi in prima persona in un impegno fisico e interpretativo attorale che la vede, nel volgere di quaranta minuti circa, in azioni e ruoli diversissimi e faticosi, con una prova personale che sembra avere a che fare con una sfida, con un bisogno soggettivo di essere presente, di esserci, di avere a che fare con questo lavoro, con questo pubblico.
Rimangono alcuni abbinamenti più simbolici e oscuri da sempre presenti nelle sue creazioni, un po’ come il cagnolino nei quadri di Tiziano: l’abbinamento fra il buio e l’acqua, le fotografie con gli album delle memorie, le accumulazioni di piccole cianfrusaglie del tipo che si trovano in fondo ai cassetti quando si trasloca, le frasi pronunciate quasi come piccole verità, aforismi (qui il principale è: Le cose non sono come sono, ma come sei); la tavola di famiglia imbandita per pranzi numerosi dove, un po’ in stile Festen, quasi mai va tutto liscio, e il riposo finale, l’addormentarsi o il lasciarsi andare al bordo fra veglia e sonno, per poi tornare alla realtà elaborando questo sistema simbolico, come se dovesse essere riferito a una sorta di sentimento inconscio e lì conservato.
ph Alex Spattini
Dal punto di vista della creazione nel suo complesso, alcuni fatti specifici portano a galla, qui è davvero il caso di dire, un bisogno della Salvaterra di un ingaggio più personale, vissuto, quasi attoriale, dentro la macchina performativa. Il secondo fatto stilizzato riguarda una composizione che nel tempo si va asciugando, con riferimento alla parola intesa come segno di comunicazione, per affidarsi sempre più a immagini, come se stesse emergendo con sempre maggior nitore un personale bisogno pittorico fotografico, che in questo spettacolo peraltro si condensa in alcune pregevolissime realizzazioni di arte tessile con le quali l’artista ad un certo punto racconta del suo rapporto con l’abitare; e del resto anche il tema della casa, della casa dai muri trasparenti, come luogo penetrabile/impenetrabile allo sguardo, ha a che fare con la poetica dell’artista.
L’esperienza per lo spettatore è intensa, merita, e queste prime repliche stanno favorendo alcuni piccoli aggiustamenti che sempre in questo genere di creazioni si possono dare nella fase creativa iniziale, quando si specifica il respiro del pubblico dentro l’opera.
L’impianto generale del lavoro appare comunque solido e netto. Sicuramente per chi segue la poetica dell’artista da più tempo, questo lavoro, seppur dentro un alveo di forme e segni consolidate, inizia a creare alcune scomposizioni, per portarsi verso una zona di sperimentazione nuova, sicuramente più fragile e insicura per chi affronta il passaggio dal certo e conosciuto all’incerto, ma sicuramente dal punto di vista artistico molto interessante e sfidante: un passaggio che forse va verso la creazione di sole installazioni abitate e umane, quasi filmico, che emergono dal buio ma che hanno a che fare con il quotidiano, al bordo fra la poetica di Bill Viola e quella del collettivo lituano che di recente con Sun & Sea ha vinto il Leone d’Oro alla Biennale.
In questa dicotomia espressiva la Salvaterra sicuramente è meno interessata al racconto del reale tal quale, e più vicina a una sua elaborazione simbolica e traslata, in stile Viola. Ma il percorso che mette in crisi la forma del percorso, dell’itinerario come dinamica esperienziale, sembra essere in moto per l’artista: qualcosa di ulteriore e più forte sta premendo, una forma nuova che, realizzando una crepa dentro le ossessioni di sempre, sta lasciando venir fuori nuovi schemi e possibilità. Come sempre, verrebbe da dire, nei momenti di crisi esperienziale e in cui i timori sussultano, arrivano ad affacciarsi nuovi scenari che, se manipolati con intelligenza, possono davvero portare alla realizzazione di opere d’arte. E questo è un sentimento che anche lo spettatore coglie, intuisce, arriva a fare proprio al termine di questo percorso sensibile di cui consigliamo la fruizione e la programmazione.